Stazione di
Bari, binario quattro ovest, ore diciotto in punto.
Il treno è
sul binario, riesco a vederlo dall’ingresso laterale, con le porte chiuse,
tutto spento e alcune persone iniziano ad arrivare. Ci sono anch’io tra queste
persone con il mio ipod che riproduce ormai da tempo Chiara Civello. Arrivo al
binario e dopo qualche minuto, finalmente, si aprono le porte ed entro cercando
il posto migliore, il mio posto migliore -quello di sempre-: terza carrozza,
perché solitamente si ferma all’altezza del sottopassaggio della stazione di
Santo Spirito; prima fila di destra, dove c’è il posto singolo, perché puoi
appoggiare i gomiti sulle gomitiere senza dover chiedere scusa e, a destra,
perché dal vetro si riesce a vedere il mare; il corpo deve sistemarsi nella
direzione della motrice, perché nelle accelerate, che sono più frequenti e
fastidiose, si appoggia la schiena allo schienale.
Mi siedo e
guardo il finestrino, sono le diciotto e sette circa quando a un certo punto sento
una voce femminile, nella pausa tra una canzone e l’altra, che mi chiede se è
libero il posto difronte. Garbatamente e indicando con la mano dico “prego!”,
senza badare e continuando a sentire il mio ipod guardando nel vuoto fuori dal
finestrino. Solitamente non me ne curo
mai di chi mi siede difronte, ma poi penso: “metti che è una bella ragazza?”.
Lo era.
Capelli neri
e raccolti a coda nella parte alta della testa, grandi occhi profondi e di un
marrone intenso, la bocca minuta e il collo scoperto è affusolato, liscio e ben
distribuito. Ha un vestito bianco con tonalità nere qua e la che parte dal seno
(né troppo grande né troppo piccolo, giusto, comunque ben coperto), lasciando
scoperte le spalle, e arriva fino alle gambe. Un vestitino che sembra partire
come maglietta e si snoda a pantalone all’altezza della vita dove c’è una cinta,
stretto al punto giusto che quando ha accavallato le gambe tutte le forme hanno
preso una linea dolce e sensuale. E per finire l’opera: i piedi, si vedono
appena, scoperti da una scarpa aperta. Ben curata e senza troppo, anzi quasi
niente, trucco. Bella e naturale. Anche lei con degli auricolari e
presumibilmente anche lei ascolta musica. La guardo in tutta la sua bellezza da
capo a piedi.
È un bel po’
che la guardo e lei se ne accorge. Solitamente quando capita distolgo sempre lo
sguardo, ma questa volta non ce l’ho fatta e lei si gira dall’altra parte forse
infastidita. Io continuo a guardarla finché lei non incrocia nuovamente il mio
sguardo e, con tutta la calma di questo mondo, si toglie gli auricolari, mette
le mani sulle gambe e mi dice: “perché mi guardi?”
“E?”, mi
tolgo gli auricolari anch’io e spengo l’apparecchio.
“Perché mi
guardi?”
“Io non la
sto guardando, la ammirando!”
“Prego?”
“Sa… le cose
belle non si guardano, si ammirano!”
Mi guarda
sorpresa, quasi incuriosita e mi dice: “in che senso?”
“Le faccio
un esempio: quando si va nella Galleria dell’Accademia di Firenze e ci si ferma
davanti al David di Michelangelo, mica ci si ferma a guardare… la si ammira! Perché
è una bellezza fuori dal comune”.
“Mi stai
dando del David?”. Sorridendo.
“No. Anche
perché lei è una donna e, per quello che mi riguarda, mi sono più simpatiche le
donne che gli uomini. Poi quello è di marmo, per quanto raffigurato come un
giovane è vecchio di qualche secolo ed è alto. E se mettiamo le informazioni al
posto giusto: uomo, di marmo, apparentemente giovane e alto, se tanto mi da
tanto come proporzioni… diciamo… mi preoccuperebbe stargli vicino come stiamo
vicino io e lei. Poi, diciamocelo, dopo tanti anni li, immobile e con tutte
quelle donne che lo osservano, il ragazzo potrebbe essere pericoloso avercelo
difronte”.
Lei sorride
con gusto e “bella la storia, ma smettila di darmi del lei; piacere, Claudia”.
“Fabio,
piacere”.
La
conversazione fino a quel momento è stata piacevole anche perché lei sorride e
quel sorriso è davvero bello. Un sorriso a denti stretti, con la bocca minuta
che si apre appena, non volgare e semplice, un sorriso che ti tranquillizza, ma
soprattutto: affascina. Affascina tanto.
Lei: “sei di
Bari?”
“Sì, da
parte di papà. Venezia da parte di mamma. Ma sono nato qui, in questa terra
meravigliosa ormai non più mia, aimè”.
“Cosa vuol
dire non più mia?”
“Ormai sono
anni che non vivo più qui. Mi sono trasferito da tempo a Gorizia, piovosa città
dell’estremo nord-est ai confini con la Slovenia”.
“E che fai
nella piovosa città?”
“L’imprenditore.
Ho una tenuta sulle colline del Collio, zona molto ricca di vigneti, e ho
un’azienda che produce vini per tutta l’Italia e nelle zone più importanti del
mondo, ho un sacco di dipendenti e un fatturato molto alto”.
“Davvero?” –
Mi guarda con un mix di disgusto per quel mio modo di fare e lo stupore. Ma
penso più per quel mio modo di fare.
“Certamente…
No!” – Scoppia a ridere e sorrido anch’io. “Tu invece Claudia, che fai, dove
vivi?”.
“Io abito a
Molfetta, ma lavoro a Bari e, contrariamente al tuo pseudo super lavoro, io
faccio la commessa in un negozio… semplicemente la commessa” – piccolo ghigno.
Sorrido –
“ragazza semplice”.
Si continua
a parlare e a sorridere. Mi piace quel suo modo di essere.
La
conversazione è interrotta alle diciotto e trentacinque quando un rumore molto
fastidioso ci interrompe, il treno è pronto per partire.
E parte.
Nessun commento:
Posta un commento